Umano, non umano.
Rileggere la società del rischio dentro la natura.
“Quello del bene comune è un concetto che abbiamo scordato, solo due paesi al mondo lo hanno inserito nelle loro Costituzioni: Bolivia ed Ecuador” (Marco Aime). Il “noi” sotteso all’affermazione dell’antropologo è l’Occidente del mondo, del quale facciamo parte. Se noi, dunque, abbiamo scordato che cosa sia il bene comune, proviamo a farne un poco memoria.
Il bene comune, più noto nella sua forma plurale, percorre la cultura occidentale con l’andamento di un fiume carsico. Prelevata dalla letteratura scolastica, la massima Omnia sunt communia, “Tutto è (bene) comune”, viene sbandierata in Germania nella prima metà del Cinquecento dai seguaci del teologo Thomas Müntzer, guida di una violenta rivolta contadina che aspira a una società più giusta, fondata sull’egualitarismo, stroncata nel sangue dalla reazione di Lutero e dei principi tedeschi. La questione dei beni comuni torna a riproporsi nell’Inghilterra di fine Seicento e del Settecento, quando il Parlamento di Londra autorizza la privatizzazione e la recinzione dei commons, le terre comuni sulle quali è fondata l’economia di sopravvivenza di secolari comunità contadine, che questa “rivoluzione agricola” condanna alla fine. Fin qui, la questione dei beni comuni investe due parti dell’umanità, con ruoli complementari e opposti: quella che dei beni detiene non solo il possesso ma anche la proprietà e quella che, essendone priva, è relegata nella condizione di povertà. Di questa seconda parte, che costituisce una triste costante della storia umana, si farà portavoce, fra gli altri, il priore di Barbiana don Lorenzo Milani che, riprendendo la massima tomistica In extrema necessitate omnia sunt communia, ne espliciterà il significato chiarendo che “per stabilire dove stia l’extremumdevi metterti nei panni del povero che hai di fronte”.
Il dibattito internazionale sulla questione dei beni comuni proseguirà con intensità durante la seconda metà del Novecento e oltre, culminando nel 2009 nell’attribuzione del premio Nobel per l’Economia a Elinor Ostrom, in virtù delle sue ricerche sui “beni collettivi”, intesi come “risorse senza proprietari”. Risorse che non si limitano più alla terra destinata all’agricoltura e all’allevamento ma che comprendono anche le foreste, le acque in generale, l’atmosfera e il clima, significativamente ribattezzate “global commons”. La Ostrom ne affida idealmente la gestione consapevole a comunità di utilizzatori nelle quali l’autogoverno economico si intreccia indissolubilmente con la realizzazione di una società democratica: l’appartenenza a tali comunità attribuisce infatti ai loro componenti sia il diritto di sfruttamento del bene comune, sia il dovere di assicurarne la manutenzione e la riproduzione.
Come si vede bene, la riflessione sui beni comuni si dilata così, inevitabilmente verrebbe da dire, fino ad assumere una dimensione globale, la stessa delle risorse senza le quali è concretamente a rischio la sopravvivenza dell’umanità stessa. Non solo, tuttavia, poiché è stato opportunamente osservato che la crescita esponenziale delle forze produttive libera rischi e potenziali autodistruttivi fino a oggi sconosciuti, che “per loro natura minacciano la vita sulla terra in tutte le sue forme” (Ulrich Beck). Ecco che l’espressione “società del rischio”, che ha iniziato a imporsi nel discorso sociologico verso la fine del secolo scorso, mostra una significativa evoluzione: se nella società liberal-democratiche il rischio era (e rimane) indissolubilmente legato alla volontà di realizzare di sé di cui ogni individuo è portatore, e che espone fatalmente anche nella possibilità del fallimento personale, ora, nella società della globalizzazione, il rischio assume dimensioni collettive che chiedono agli uomini di maturare un sentimento di appartenenza cosmopolita nel senso più ampio possibile , ossia di sentirsi cittadini di un mondo che soltanto umano non è.
Possiamo a questo punto tornare con maggiore consapevolezza a quel “bene comune” dal quale siamo partiti per questa breve ricognizione storica: l’aggettivo “comune”, oggi, non può più significare soltanto ciò che è proprio di ogni forma di vita, umana e non umana. Diventa così più perspicuo anche il tema che caratterizzerà l’edizione 2025 di Leggermente: per dirla ancora con le parole dell’antropologia, se “considerarci al di sopra del mondo naturale ci ha condotti dritti verso la catastrofe ecologica”, allora “comprendere di esserne parte è il primo passo nella direzione opposta” (Irene Borgna). Direzione che, a ben guardare, è da secoli inscritta nell’esortazione francescana alla familiarità con “frate vento”, con “aere et nubilo et sereno et onne tempo”, con “sor’aqua” “utile et humile et pretiosa e casta”, infine con “sora nostra matre terra, / la quale ne sustenta et governa, / et produce diversi fructi con coloriti flori et herba”.
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